Intervista a Filippo Brancoli Pantera

17.11.2020

IL FOTOGRAFO LUCCHESE CI RACCONTA LA SUA "TOSCANA INTERIORE"

Benvenuto Filippo,

Parlaci un po' di te. Chi sei? Cosa fai? E soprattutto dove vai?

Sono una persona che prova a raccontare il mondo - e le esperienze che nel frattempo compie - attraverso delle immagini e delle parole; non so se esiste una definizione univoca e precisa, io non l'ho ancora trovata per la verità. Cerco di andare sempre un po' più in là, sono fedele ai sogni che avevo da piccolo, volevo fare l'esploratore ma non di un posto in particolare bensì della vita, in generale.

Cosa rappresenta per te la fotografia?

È la mia compagna abituale, grazie a lei metto a fuoco alcuni aspetti che ritengo importanti della mia esistenza. È anche un modo di riflettere sul mondo e di pensare a questo rappresentandone dei frammenti interessanti. 

Nel mio lavoro c'è un forte senso di responsabilità collettiva, non è solamente un esprimere me stesso, ma la ricerca di emozioni e sensazioni che sono comuni a tutti; la maggior parte delle persone non ha purtroppo il tempo, la voglia o gli strumenti per poterle rappresentare, allora lo faccio io anche per loro, un po' come se tornando indietro sui nostri passi trovassi delle cose meravigliose che ci erano sfuggite, ecco io le prendo e le rendo evidenti, in questo modo cerco di far capire che la bellezza è ovunque, sta a noi saperla riconoscere.

C'è una fotografia, non necessariamente di "Toscana interiore", a cui sei particolarmente legato? Come mai?

Sono molte le fotografie a cui si resta legati, quasi tutte, ma certamente alcune acquistano un ruolo emotivo maggiore nel corso del tempo. Sul finire degli anni '90 fotografai i miei nonni nel momento in cui percorrevano a braccetto il corridoio di un ospedale; sono ripresi da dietro, mentre camminano assieme, di pari passo, uno appoggiato all'altra, sotto una freccia che indica loro la direzione. Era difficile immaginare che anni dopo quel corridoio sarebbe stato il teatro principale della loro morte, anche questa affrontata assieme, a braccetto, come camminavano sempre loro.

Parliamo del libro che hai pubblicato con NPS Edizioni: "Toscana interiore". Qual è la sua storia? Come è nata l'idea?

L'idea di raccontare una parte di mondo che conosco molto bene è nata mentre vivevo in un posto che conoscevo molto male. Studiavo fotografia a New York e mi confrontavo con la grande tradizione americana della fotografia di paesaggio. La maggior parte dei miei insegnanti e dei miei maestri viene da quel settore lì; ero ammirato dal modo in cui riuscivano a far parlare il loro territorio, hanno dato voce e dignità a pezzi di mondo che prima di loro nessuno aveva mai considerato degni di essere fotografati. Grazie a loro ho capito che una delle principali chiavi per rappresentare il paesaggio non è la sua presunta bellezza, ma la nostra capacità di capirlo, leggerlo e ascoltarlo. 

E per fare queste cose devi conoscere molto bene la cultura delle persone che lo abitano; per questo ho lasciato gli Stati Uniti, per mettermi al lavoro su un territorio che potessi considerare come espressione di una cultura a me vicina e comprensibile, fino al livello dei dettagli più piccoli.

La Toscana mostrata nel volume è una Toscana vera, nuda, cruda. Cosa ti attrae di questa Toscana?

Lavorare sul paesaggio è un'attività che non conosce pause, ci viviamo dentro, sempre, ogni giorno dell'anno. Tuttavia da un po' di tempo si sta affermando sempre più un approccio turistico, anche da parte delle persone che vi risiedono e questa non è una grande conquista, anzi, è indice di un rapporto con il territorio che si sta deteriorando; credo che vada recuperato alla svelta. Alla base di molti malesseri della società contemporanea si trova infatti proprio la sensazione di non appartenenza e la mancanza di identificazione con il territorio stesso. Non a caso il grande antropologo Ernesto de Martino aveva chiamato "angoscia territoriale" la malattia di chi viene sottratto ai propri punti di riferimento. 

Credo che uno dei sintomi sia proprio quello di considerare come triste una giornata piovosa. Il mio lavoro va nella direzione opposta, fornisce un supporto, la prova che andare a fare una passeggiata su un poggio bagnato è meglio che stare sul divano a lamentarsi in attesa che arrivi la bella stagione. In questa parte di Toscana oltretutto piove così tanto che se dovessimo interrompere il nostro rapporto con il mondo che ci circonda per tutta la stagione umida... perderemmo quasi metà dell'anno.

La parte fotografica, in "Toscana interiore", è preceduta da un breve racconto "on the road". Era la prima volta che scrivevi una storia completa? Come è stato passare dall'obiettivo alla penna?

È stato simile a un tuffo, ho avuto un po' paura prima di buttarmi e sono serviti tempo, riflessione e incoraggiamenti (da parte di Romina Lombardi, curatrice del libro) per capire se e come farlo. Poi, come spesso capita, le cose hanno iniziato a girare in modo molto più rapido e naturale di quanto avrei mai sospettato. 

In "Toscana Interiore" fotografia e prosa si integrano reciprocamente, e questo credo che sia un bene; il fine di tutto quello che faccio è comunicare, se posso farlo meglio con due linguaggi anziché uno solo perché privarsene. Alla fine, è stato un ritorno alle origini, ho iniziato a lavorare come giornalista, scrivevo e basta, solo in seguito mi sono dedicato allo studio delle immagini; si vede che doveva andare così.

Parliamo del Filippo lettore. Quali sono le tue letture preferite? Autori che non possono mancare nella tua libreria?

Mi piace molto chi riesce a combinare una grande capacità descrittiva del mondo assieme a una sfrenata fantasia e all'amore per il linguaggio; le cose che si scrivono devono anche suonar bene, altrimenti manca qualcosa. Da questo punto di vista Calvino resta per me il riferimento principale, nella sua opera c'è tutto, la serietà e la leggerezza, il reale e il fantastico, la narrativa e la saggistica. Ovunque vada porto con me Il sentiero dei nidi di ragno, Le città invisibili e le Lezioni Americane; le metto in uno scaffale e mi sento subito a casa. 

Per il resto sono un lettore libero, se una cosa è bella, meglio se bellissima, ancor più se straordinaria, mi piacerà senz'altro, non mi interessa troppo la fedeltà ai generi; ho bisogno tanto della poesia Haiku quanto della saggistica dei grandi giornalisti così come delle atmosfere di Rozzano raccontate da Jonathan Bazzi in Febbre, che libro meraviglioso, il suo linguaggio canta e incanta.

Progetti futuri?

Sono in partenza, mi trasferisco a vivere per alcuni mesi in cima a un monte, in Valle D'Aosta. Ho bisogno di trovare un dialogo diretto con la stagione invernale, non può essere solo quella che precede la primavera, sperando oltretutto che faccia presto a lasciarle il passo. Se è importante il rapporto che abbiamo con il mondo - nel senso di spazio - che ci circonda, altrettanto lo è quello con il tempo, anche con le stagioni, che attraversiamo. Sto lavorando intensamente a un nuovo progetto, ancora una volta a base di parole e immagini, realtà e fantasia; si chiama Tappeti Volanti e collega la bellezza che si cela in natura (tra le fronde degli alberi) alla nostra cultura.

Grazie per essere stato con noi.